Il passo di Deuteronomio 6 rimane essenziale per la comprensione della tradizione religiosa ebraica: " Ascolta Israele, il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno. Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore" (6, 4)
.
Rashi commenta lo Shema' osservando che "Dio non è ancora il Dio dei popoli idolatri, ma un giorno, come profetizzano Sofonia e Zaccaria, ci sarà un solo Signore e unico sarà il suo nome.
E Michea profetizza la missione universale di pace che Israele è destinato a portare in mezzo a tutti i popoli: "Sarà portatore di pace [...] e il resto di Giacobbe sarà in mezzo a molti popoli come rugiada sull'erba" (5, 4, 6).
La creazione stessa, secondo il commento di Rashi al capitolo 1 della Genesi, è orientata alla Torah e a Israele. Dio creò il mondo "bishvil ha Torah", per amore della Torah, e "bishvil Ysra'el", per amore di Israele. Israele è dunque consapevole di essere un popolo separato per il servizio sacerdotale, consacrato per guidare tutti i popoli alla perfetta obbedienza e all'amore di Dio.
Perciò l'ebraismo non può disperare della fedeltà di Dio, è prigioniero della speranza. Ma anche noi siamo legati a questa speranza.
Nonostante la fedeltà di Dio all'alleanza e all'amore per il suo popolo, Israele ha rischiato più volte, nel cammino della storia, di essere eliminato e si è trovato spesso in condizioni di inferiorità e di persecuzione.
Come vanno interpretati questi avvenimenti senza cedere alla disperazione, senza rischiare di rimuoverli, nella loro tremenda e concreta realtà, dalla memoria storica?
Le reazioni degli ebrei di fronte a queste tragedie furono, di volta in volta, diverse: talora ne cercarono la causa nella disobbedienza alla legge; in altri momenti accusarono l'ingiusti- zia dell'uomo; oppure cercarono conforto adorando, in silenzio, l'incomprensibile mistero di Dio.
Leggiamo, ad esempio, nel Midrash Rabbà sul libro delle Lamentazioni: "Israele fu punito", dice ben Aza'i, "per aver ripudiato l'unico Dio, la circoncisione, i dieci comandamenti, i cinque libri della Torah".
La Mishnah, in un noto passo, mostra con quale coscienza unitaria l'ebraismo rifletteva su questi fatti della sua storia: "Cinque disgrazie caddero sui nostri padri il 17 di Tammuz e il 9 di Ab; il 17 di Tammuz, le tavole della legge furono spaccate, l'offerta quotidiana interrotta e una breccia fu aperta nella città e Apostomos bruciò i rotoli della legge e mise un idolo nel tempio; il 9 di Ab fu decretato che i nostri padri non sarebbero entrati nella terra promessa, il tempio fu distrutto la prima e la seconda volta, Bethar fu catturato e la città fu devastata".
L'ultima di tutte queste grandi tragedie è stata la Shoah: essa non ha alcuna proporzione con le persecuzioni precedenti e appare come il climax tragico dell'antisemitismo dei millenni precedenti.
Mi riferisco ad Auschwitz: alcuni ebrei lo giudicano come il martirio e la sofferenza più duri che Dio abbia chiesto ad Israele; altri (André Neher ed Elie Wiesel) come il tempo del più grande buio e del totale silenzio di Dio.
Ma la speranza continua a brillare sul sentiero del popolo ebraico attraverso la storia. La speranza riemerge dall'orrore della Shoah perché c'è un segno concreto che splende come un faro nella notte: è la promessa messianica di una terra, della terra riconciliata di Gerusalemme, la città della pace, di un mondo futuro, di uno shalom messianico. Questo sguardo verso il futuro, nonostante e forse proprio a causa di cosi numerose sofferenze, ci conduce al cuore di un problema che affligge non solo Israele ma anche la chiesa. Israele ha una missione messianica universale di "shalomizzazione" del mondo; la chiesa si propone di portare gli effetti della riconciliazione attuata da Cristo al mondo e all'universo intero.
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