Ogni tanto si riesce a scrivere col cuore. E accade miracolo della letteratura: le parole colpiscono nel
segno. Trasmettono idee, immagini, emozioni che toccano, che entrano nel cuore altrui, e lì
agiscono; scatenando a loro volta idee, immagini, sentimenti, emozioni. È accaduto questo raro,
insondabile miracolo nel breve saggio L'ebraismo spiegato ai miei figli di Elena Loewenthal
(Bompiani). Che "non è un'introduzione all'ebraismo ( ) sono parole sparpagliate fra la testa e cuore,
fra gli occhi del corpo e quelli della mente, come si direbbe in ebraico" confida la scrittrice torinese
madre di tre figli, di 18, 12 e 11 anni. E queste parole sparpagliate ci guidano nel viaggio, da Abramo
ai nostri giorni, di quel popolo numericamente insignificante, ma reso compatto da un senso di
appartenenza alla propria storia che non ha uguali. Una delle immagini che meglio rendono la
continuità ebraica è quella della catena: "una catena in cui ognuno di noi non è altro che un piccolo
anello. Senza il quale però la catena si spezza". Non per nulla il termine ebraico toledot, che
generalmente si traduce come "storia", vuole anche dire "generazioni", anelli di una catena
alimentata dalla tradizione. Tante tappe di questo cammino. Alcune raggianti, lievi e fresche come la
brezza del mattino: come la parola cherut, che significa libertà, ma anche "incise" come le lettere e le
parole delle Tavole della Legge incise sulla pietra; come come la benedizione, l'essenza della
preghiera ebraica, di cui una delle più belle è "Benedetto il Signore che ha fatto il mondo vario!", che
l'ebreo osservante è tenuto a recitare di fronte a fatti che non riesce a comprendere; come il tipico,
significativo saluto, Lechayim, Alla vita!; come la tintinnante parola shalshelet che significa catena,
appunto, pregna del senso di responsabilità personale di ogni azione dell'ebreo: perché "ogni azione
può avvicinare o allontanare l'ora della venuta del Messia". Altre tappe tristi, cupe: l'esilio Babilonese.
La Diaspora. Poi, una punta senza uguali, terribilmente tragica: la Shoah. Poi il progetto gioioso dei
sionisti di fine Ottocento - il ritorno a Gerusalemme per essere un popolo come gli altri, con un
territorio su cui esercitare la propria sovranità - diventato una realtà. Che spalanca però le porte
all'ultima tragedia. Nel 1948 l'Onu prese quella Palestina che per secoli era stata dominio turco e poi,
dopo la prima guerra mondiale, mandato britannico, e la spartì in due: un pezzo agli ebrei, un pezzo
agli arabi. Ma non se ne fece nulla e quel giorno nacque il conflitto arabo-israeliano. Un nuovo orrore,
per dire il quale anche a Elena Loewenthal ancora mancano le parole.
ELENA LOEWENTHAL ènata a Torino nel 1960. Lavora da anni su testi della tradizione ebraica. Ha pubblicato: per Frassinelli
Figli di Sara e Abramo, Lo strappo dell'anima; per Adelphi Le leggende degli ebrei; per Baldini &
Castoldi Buon appetito Elia. Manuale di cucina ebraica, Enciclopedia della risata ebraica; per Idealibri
Ebraismo, le grandi religioni. Nel '97 ha vinto il premio Andersen con I bottoni del signor Montefiore e
altre storie ebraiche (Einaudi). Collabora con La Stampa. Sacerdoti del mondo
Incontro con Elena Loewenthal
Che cosa significa per gli ebrei d'oggi essere parte "popolo eletto"? Nel tuo libro scrivi
che il termine ebreo, ivrì,"colui che sta dall'altra parte", appioppato per primo ad Abramo, getta luce
su questa elezione "Come spiego appunto in quelle poche pagine, Abramo è colui che parte verso un
al di là della storia: recide gli idoli, copre una lunga distanza, è solo nella sua impresa di Con lui
nasce quell'attitudine ebraica a trovarsi, volenti nolenti, dall'altra parte dell'identità altrui. Il popolo
ebraico è "eletto" non certo perché si senta superiore agli più vicino a Dio. L'elezione di Israele è una
specie di lavoro: non significa godere di più diritti degli altri, bensì l'essere stati scelti come sacerdoti
dell'umanità". In cosa consiste questo compito sacerdotale dell'ebreo? "Nel coltivare la Torah e la
siepe che sta intorno ad essa, con le opere e le parole. Osservando i precetti, rispettando per intero
la legge biblica, studiando la Bibbia, ripetendola e cercando ciò che racchiude nel senso implicito.
Fare da sacerdoti nel mondo è il lavoro specifico dell'ebreo, mentre altri invece coltivano la terra,
confezionano abiti, portano l'acqua, studiano ". "Scegli la vita!" è il filo conduttore dell'elaborazione
ebraica fin dai tempi biblici. Come si è realizzata questa scelta nella vita degli ebrei? "Così, appunto,
scegliendo la vita, scegliendo di sopravvivere piuttosto che rinunciare, vivendo con l'imperativo della
trasmissione, della fede e della vita. "Scegli la vita!" è il precetto fondamentale dell'ebraismo che va
preso alla lettera, tale qual è. Se non altro per obbedienza a Dio, dunque, gli ebrei sono
sopravvissuti". La Terra Promessa, da Abramo a Mosè in poi, ha avuto alcune caratteristiche: che
era sì promessa dall'Altissimo, ma era già occupata da altri; implicava lotta per la sopravvivenza o
per la conquista o per la fatica del vivere fianco a fianco ad
altri popoli; poi oggi c'era domani non c'era più. Che significato ha per te la Terra Promessa? "Per me
significa sapere di avere un luogo che mi appartiene e cui appartengo, è un polo della mia identità. È
rifugio e concretezza della propria storia. Fa parte della mia dimensione dell'identità ebraica". E la
domanda corre inevitabilmente alla situazione odierna. Pare di essere alquanto lontani da una
soluzione pacifica della situazione che si è creata fra palestinesi e israeliani. In cosa riponi la
speranza che ciò accada? "Non sono un politico né un profeta. La speranza sta nel reciproco
riconoscimento. Non c'è alternativa alla convivenza ". Meir Shalev afferma che prima o poi si arriverà
alla pace in Medio Oriente perché palestinesi e israeliani sono fondamentalmente simili, e che ogni
giorno diventano ancora più simili. Tanto che secondo lui, quando la pace sarà più vicina, si diranno
a vicenda: "Chissà che cosa avevamo tanto da litigare ".Tu condividi questa visione? In cosa vedi
questa similitudine? "La similitudine è il frutto di una convivenza nolente sino ad ora, fianco a fianco,
nel condividere una terra. Non so se l'ipotesi futura di Shalev sia attendibile, può darsi. Io ritengo
comunque che sia inevitabile che ebrei e palestinesi imparino a convivere e a rispettarsi
reciprocamente, prima o poi, su quella piccola terra, dove si sta stretti e lo spazio basta solo se ci si
sopporta a vicenda
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