giovedì 6 febbraio 2020

Per parlare bene di Gerusalemme non si può utilizzare che il linguaggio della profezia, è il solo che non tradisca il piano di Dio .





Occorre che comprendiamo meglio il senso dell’appartenenza a Gerusalemme delle tre famiglie discendenti da Abramo: ciascuna vi si ritrova a  titoli diversi ma egualmente inscindibili. L’ebreo si sente in casa sua geograficamente ed anche storicamente,  è all’interno della sua storia biblica dalla fondazione della città,  e vi è  nel più profondo del suo cuore e tutta la sua vita ne è impregnata. “Che la mia destra si secchi se ti dimentico Gerusalemme!”  (Salmo 137): quando il popolo ebraico, esiliato e disperso, lanciava da “seder” a “seder”  il grido: “l’anno prossimo a Gerusalemme”, la sua identità si sviluppava in un tono tanto spirituale che temporale ed è al Muro del Pianto che si ritrova la tragica bellezza della fede ebraica. Per il cristiano,  Gerusalemme è la città in cui la sua fede è nata sulle tracce di Gesù che insegnava al Tempio il Vangelo dell’Amore, che spezzò al Cenacolo il pane di una Nuova Alleanza, che diede la propria vita sul Golgota, che salì al cielo e inviò lo Spirito della Pentecoste sulla Chiesa degli Apostoli. Per il musulmano, Gerusalemme è il luogo santo (Al Qods) in cui Maometto, cavalcando dalla Mecca la giumenta alata, fece l’esperienza mistica  e l’ascensione notturna, conversando con Abramo, Mosè e Gesù. È anche il rifugio degli ultimi credenti che saranno convocati, alla suprema egira, sulla spianata della Moschea Al Aqs. D’altronde, per le tre religioni, è a Gerusalemme che la tromba dei morti  risuonerà e richiamerà alla vita gli ebrei, i cristiani e i musulmani. Da qui, si capisce che tutti reclamino Gerusalemme, ma nessuno può rivendicarla escludendo gli altri. Gerusalemme non è un luogo che si possiede ma un luogo che ci possiede, un luogo in cui ciascuno deve svestirsi delle proprie cittadinanze  umane per essere completamente della sola cittadinanza che conta, quella di Dio. Per parlare bene di Gerusalemme non si può utilizzare che il linguaggio della profezia, è il solo che non tradisca il piano di Dio su ciò.  Niente di meno utopistico di una visione profetica, niente anche di più esigente poichè impegna a vivere già in anticipo qualcosa di questo avvenire di pace e di beatitudine.(“Gerusalemme, ogni popolo ha qui la sua patria” Card. Roger Etchegaray)


http://www.vatican.va/jubilee_2000/pilgrim/documents/ju_gp_06042000_p-1a_it.html

Hashana haba’a b’Yrushalayim (השנה הבאה בירושלים), ovvero L’anno prossimo a Gerusalemme è la promessa che ci si scambia durante la Pasqua ebraica.

E’ una promessa dolce: quest’anno, siamo in esilio ma l’anno prossimo il nostro Dio ci consentirà di essere nuovamente a casa.

E’ anche una promessa intimamente antisionista: Gerusalemme può essere solo un dono di Dio, non la si può conquistare con le armi o con la costruzione degli insediamenti.

Soprattutto, è una promessa sconfitta.
La si pronuncia sapendo benissimo che l’anno prossimo non saremo a Gerusalemme.

Che il giorno in cui saremo a Gerusalemme non appartiene alla nostra vita.

E forse non si spera nemmeno di essere l’anno prossimo a Gerusalemme: l’esilio ha i suoi vantaggi e la nostalgia è uno di questi.

In ogni caso, fa pensare alla quantità di promesse sconfitte che ci si scambiano.

http://profstanco.com/2009/05/28/lanno-prossimo-a-gerusalemme/




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