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Come ha reagito la sua comunità alla pandemia? E al lockdown?
«Come tutti: vivendo preoccupazioni, angosce, nevrosi indotte. E le difficoltà economiche che in alcuni casi sono state disastri micidiali. Per l’organizzazione comunitaria abbiamo dovuto fare sacrifici molto grandi».
Quali?
«La vita religiosa in sinagoga e in grandi riunioni familiari è entrata in crisi, come il sistema di insegnamento. Però il mondo digitale ci ha spalancato platee di persone interessate che nemmeno pensavamo esistessero».
Avete perso molti membri della comunità?
«Sì, d’altro canto il virus del Covid non è razzista».
Qualcuno tra voi ha pensato che il Covid fosse una punizione divina?
«Quando si parla in termini biblici di epidemie, esiste anche il tema della punizione. Ma oggi, nel nostro modo di concepire le cose, questo non è accettato. Piuttosto è il tema della responsabilità, che non può essere eluso».
Responsabilità da parte di chi?
«Se le cose vanno male esiste sempre una parte di responsabilità umana».
Prima ha evocato altre pandemie della storia. A quali si riferisce?
«La pestilenza del 1656 arrivò a Roma da Napoli. Ho tradotto le pagine del diario di un rabbino, Zahalon, che era anche un medico, che fu incaricato di gestire l’emergenza della comunità in quel momento. Le autorità pontificie sbarrarono i cancelli del ghetto e nella piazza antistante eressero una forca per dissuadere dalla disobbedienza. All’interno costruirono un lazzaretto. Era un regime terroristico. E ci furono tantissimi morti».
La prova terribile della Shoah non ha indotto il popolo ebraico a dubitare dell’esistenza di Dio?
«La Shoah è stata attraversata da non credenti che sono rimasti tali, da persone che prima credevano e poi non hanno più creduto, e da tanti altri uomini e donne che invece si sono rafforzati nella fede. Il popolo ebraico ha un rapporto dinamico con il suo Creatore. Sa bene che la sua è una storia difficile, fatta di conflitti. Malgrado questo in molti di noi c’è una fede incrollabile».
La strage accanto alla Sinagoga di Vienna è l’ennesimo ritorno dell’antisemitismo?
«Ancora non è ben chiaro cosa sia successo. Abbiamo di fronte un avversario per il quale l’odio antiebraico è solo un condimento di una pietanza più complessa, in cui ci sono l’Occidente, il cristianesimo, l’ebraismo».
Esiste un antisemitismo di sinistra?
«Come no, è quello che gioca sull’equivoco dei poveri contro i ricchi, identificando erroneamente gli ebrei come detentori dei poteri economici. Un vizietto che già compare nel giovane Marx, per quanto fosse il nipote di un rabbino».
Chi è Gesù per gli ebrei?
«Prima di tutto un figlio del nostro popolo. Neghiamo che sia Dio e che sia il Messia, o un profeta. Ma comunque lo riconosciamo come parte della nostra storia».
Quando venne papa Francesco in sinagoga le disse che voleva discutere di teologia…
«E io risposi di no, perché ognuno ha la sua. Avere un dialogo non significa necessariamente andare d’accordo».
Cosa è la speranza per un ebreo?
«Intanto diciamo che c’è speranza. Poi ci possono essere speranze individuali e collettive. Ma soprattutto non basta dire speranza, deve essere buona speranza».
Perché buona?
«È un termine antico che compare nelle nostre preghiere, c’è speranza e speranza. E non è un caso che quando nel 1487 Diaz raggiunse un punto molto a Sud dell’Africa e gli diede il nome di capo delle Tempeste, alla corte portoghese qualcuno suggerì di non chiamarlo con un termine così negativo, ma con un nome beneaugurale. E dalla memoria inconfessabile di qualcuno che aveva imparato le preghiere ebraiche uscì, appunto, Buona Speranza».